Ecco la mia eredità

Simon

Conobbi Simon quando lui aveva undici anni e io nove. Veniva dalla Francia, dove era nato da genitori italiani che vi erano emigrati all’inizio degli anni Venti in cerca di fortuna. Sembrava che le cose fossero andate piuttosto bene per loro, perché una volta ritornati in patria, e per sempre, rilevarono un esercizio di sali e tabacchi che serviva, a quei tempi, da piccolo bazar; e si comperarono anche una bella casetta che lo incorporava. Dal suo arrivo in Italia Simon destò una certa curiosità presso la banda di mocciosi alla quale appartenevo anch’io. La sua difficoltà ad assimilare il nostro dialetto, la caratteristica della ‘erre moscia” e una sorta di timidezza ci dettero a prima vista la sensazione di poterlo dominare a piacere. Pur essendo di modesta statura, e così restò anche da grande, era di costituzione robusta e ben presto restammo ammirati dalla sua capacità, quasi funambolesca, di fare il salto mortale, di camminare avanti e indietro con le mani e le gambe all’aria, e, soprattutto, dalla sua imbattibilità nel nuoto. Simon, dunque, fu presto accettato da tutti noi, e il suo inserimento giovò al “branco” perché vi aveva introdotto uno stimolo nuovo. Mi accorsi, durante gli anni successivi, che, benché non ci somigliassimo, né per qualità somatiche, né per carattere, avevamo molto in comune: era di entrambi la curiosità di conoscere il mondo, cercare la risposta a molti perché, e, soprattutto, il piacere di conversare insieme su argomenti i più disparati. Sentivamo di nutrire rispetto e ammirazione per quella macchina meravigliosa che è il cervello umano e per le sue sconfinate possibilità creative. Eravamo convinti che l’unica grande differenza che ci distingue dagli altri animali risiedeva nel potenziale di questo organo, piuttosto che in astratte regioni dell’anima, che non si vede, né sappiamo veramente cosa sia. Fin d’allora, sentivamo di appartenere alla schiera degli evoluzionisti piuttosto che a quella dei creazionisti, pur conoscendo la dottrina cristiana e avendo assistito a tante prediche in chiesa. Eravamo alquanto digiuni della filosofia illuministica e conoscevamo ben poco Darwin. Era qualcosa di spontaneo a farci ragionare in quel modo e non provavamo alcuna vergogna a parlarne con certi bigotti che, ai primi nostri accenni, si facevano il nome del padre. Determinati a mettere la ragione all’apice dei nostri interessi culturali, trascurammo di proposito tutto quello che riguardava il trascendente.
Eravamo solo alle nozioni che formano una buona conoscenza del sapere nella sua globalità, però già viziati dalla tendenza a trascurare i grandi temi della fede a favore di quelli della ragione. Oggi, che sono al tramonto, non rinnego tutto ciò, ma vedo le cose con occhi diversi, più distaccati, meno prigionieri dell’ardente intransigenza della gioventù.
In amore, Simon, quando se ne parlava fra di noi, lasciava intendere che amava procurarsi piaceri sessuali piuttosto arditi, attento solo all’erotismo, e in questo c’era del vero; ma io sapevo che in fondo in fondo egli aveva un concetto nobilissimo dell’amore vero, che andava cercando continuamente, sarei tentato di dire, con la paura di perderlo prima ancora di averlo trovato. Da ottimo ballerino quale era, dal dopoguerra frequentò con me numerose piste da ballo, dove ci abbandonavamo ai nuovi ritmi del jazz, e in particolare della musica sudamericana che amavamo entrambi. Il ballo era il principale svago dei giovani alla fine degli anni Quaranta e per tutti i Cinquanta. Ci accomunava anche l’amore per la poesia e la grande musica. Cercavamo di non mancare ai concerti più importanti che vennero dati nelle nostre città. Avemmo l’occasione di assisterne ad alcuni memorabili, nei quali si esibirono al pianoforte esecutori del calibro di Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Alfred Cortot ecc., e al violino David Oistrach, Jehudi Menuhin, Isaac Stern e tanti altri. Il jazz lo potevamo gustare solo ascoltando i settantotto giri americani.
Per un innato senso di competizione insito nella natura umana, Simon, che in matematica era più forte di me, amava sorprendermi con alcuni problemi apparentemente semplici, ma che si trasformavano in autentici incubi. Allora io mi rifacevo con la filosofia, nella quale lui mostrava più evidenti i suoi limiti; a volte cadeva in un ginepraio di argomentazioni assurde, senza capo né coda. Non ci fu mai cattiveria nel prevalere l’uno sull’altro, e sebbene notassi che aveva spesso scarsa capacità di esprimere compiutamente un concetto, cercai sempre, più o meno abilmente, di trovare un diversivo che lo liberasse da un palese imbarazzo. La stessa cosa accadeva se ero io che non riuscivo a risolvere qualche maledetto rompicapo matematico da lui proposto: non ostentava compiacimento, ma passava a parlare d’altro.
Era arguto e facile alle battute. Ricordo una mattina di un Natale negli anni Cinquanta. Erano circa le undici e stavo al bar con altri amici, ognuno raccontando come aveva passato la vigilia. Mancava Simon, ma di lì a poco comparve con aria ancora assonnata. Aveva una faccia che sembrava una maschera, piena di escoriazioni di un colore rosso-blu. Noi tutti esclamammo: “Che cosa ti è successo?”. “Semplice — rispose imperturbabile —mi sono conciato per le feste”.
Venni a sapere, non da lui perché nemmeno se lo ricordava, che la sera precedente era stato a una festa con alcuni suoi ex compagni di scuola, si era ubriacato e aveva fatto un gran ruzzolone sul selciato, nel tentativo di rincorrere un tizio che gli aveva combinato uno scherzo sgradito.
Spirito irrequieto, a venticinque anni andò all’estero, girovagò da un paese all’altro nel Nord Europa, e finalmente si stabilì a Londra per un lungo periodo facendo diversi lavori per campare, avendo prosciugato la cospicua scorta di denaro di cui si era munito quando lasciò l’Italia. Sempre alla ricerca di amori impossibili, finì col degradarsi dedicandosi all’alcol. Tornò parecchio tempo dopo, quando ero già sposato. Era malandato e già con i segni di una precoce decadenza. Ci vedevamo raramente, perché quando tornavo dai frequenti viaggi all’estero per lavoro amavo restare in casa con mia moglie e i figli; nonostante non mi fossi mai curato delle apparenze, la frequentazione assidua di uno scapolo in casa di due giovani sposini mal si conciliava con le usanze di allora. Una decina di anni più tardi, pure lui si sposò con una disgraziata con la quale aveva intrattenuto, per lungo tempo, solo rapporti sessuali. Sebbene conoscessi quella donna, per niente convinto che quel matrimonio avrebbe potuto procurargli un briciolo di felicità, ero comunque certo che niente avrei potuto fare per dissuaderlo.
Poco tempo dopo, quella femmina riuscì a incastrarlo, facendosi intestare una proprietà immobiliare
avuta in eredità dai genitori, e, anziché aiutarlo a vincere il maledetto vizio del bere, cercò in ogni modo di alimentarlo, come dissero i bene informati.
Povero amico mio, lo ospitai in casa per l’ultima volta, a cena, Ci prodigammo invano mia moglie e io, perché non riuscimmo a fargli assaggiare che qualche boccone. Piuttosto fu prodigo nel bere, e noi col cuore affranto lo lasciammo fare. Aveva la barba incolta, gli occhi di un allucinato e il vestito malandato, lui che da giovane ci teneva tanto e non si offendeva se lo chiamavano “gagà”.
Parlò poco e a fatica. Ricordo che a un tratto, guardandoci in silenzio, disse con gli occhi più lucidi del solito: “Siete davvero una bella coppia”.
Poco dopo si alzò, e parve che più che accomiatarsi volesse fuggire. Mi strinse la mano con forza e se ne andò.
Qualche settimana dopo fu colto da delirium tremens e morì in poche ore. Era ricoverato per l’ennesima volta in ospedale, ma anziché seguire la terapia prescritta si procurò una bottiglia dì whiskey e se la scolò tutta. Fu, ne sono certo, un autentico suicidio dettato dalla disperazione.

Enzo Belia

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