Cara Fern

La Sua lettera mi ha molto commosso e se potessi prenderei subito il treno per provarLe che non è vero che la circondi il gelo e l'ostilità. Ma non capisco perché si trovi tanto male proprio adesso che sa che sa di poter lavorare nove ore al giorno e quindi pressoché mantenersi. Non ha sempre aspirato all'indipendenza? A meno che Le succeda come a tutti: una volta ottenutala, non sa più che farne. Si ritorna cioè a quanto Le ho sempre consigliato: si faccia una vita interiore - di studio, di affetti, d'interessi umani che non siano soltanto di «arrivare», ma di «essere» - e vedrà che la vita avrà un significato. Io non ho potuto muovermi anche perché abbiamo avuto i questurini in casa per parecchio tempo - una nostra impiegata è stata arrestata¹ - e s'immagini le grane.
Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare - tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri.
Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. È solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto.
La nostra posizione qui è molto precaria. Il padrone ogni tanto fa progetti per riportare la baracca in Piemonte - che non mi dispiacerebbe. Ma intanto - tira e molla - non faccio più niente e non ho più pace. La smetta con quella stupida storia dell'assegno. Pensi piuttosto a tradurre l'Addio, e con l'assegno si comperi un monopattino.
Coraggio e arrivederci.

— Cesare Pavese a Fernanda Pivano, maggio 1943

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