L’avventura di un fotografo

S’avvicinò a Bice, si mise a sbottonarla sul collo, sul petto, a far scorrere il vestito sulle spalle. Gli erano venute in mente certe fotografie di donne ottocentesche, in cui dal bianco del cartoncino emerge il viso il collo la linea delle spalle scoperte, e tutto il resto svanisce nel bianco.
Quello era il ritratto fuori dal tempo e dallo spazio che ora lui voleva: non sapeva bene come si faceva ma era deciso a riuscirci. Piazzò il riflettore addosso a Bice, avvicinò la macchina, armeggiò sotto il drappo per regolare l’apertura dell’obiettivo. Guardò. Bice era nuda.
Aveva fatto scivolare il vestito fino ai piedi; sotto non aveva niente; aveva fatto un passo avanti; no, un passo indietro che era come avanzare tutta intera nel quadro; stava dritta, alta davanti alla macchina, tranquilla, guardando davanti a sé, come se fosse sola.
Antonino sentì la vista di lei entrargli negli occhi e occupare tutto il campo visivo, sottrarlo al flusso delle immagini casuali e frammentarie, concentrare tempo e spazio in una forma finita. E come se questa sorpresa della vista e l’impressionarsi della lastra fossero due riflessi collegati tra loro, subito premette lo scatto, ricaricò la macchina, scattò, mise un’altra lastra, scattò, continuò a cambiare lastra e scattare, farfugliando, soffocato dal drappo: - Ecco, ora sì, così va bene, ecco, ancora, così ti prendo bene, ancora.
Non aveva più lastre. Uscì dal drappo. Era contento. Bice era davanti a lui, nuda, come aspettando.
- Adesso puoi coprirti, - disse lui, euforico, ma già con fretta, - usciamo.
Lei lo guardò smarrita.
- Ormai ti ho presa, - disse lui.
Bice scoppiò a piangere.
Italo Calvino

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